archivio mostre
Aldo Martinuzzi, I Volti dello Sport
Aldo Martinuzzi
I volti dello sport
Sala AIAT Piancavallo
27 dicembre 2005 - 15 gennaio 2006
Villa Carnera, Sequals
7 agosto - 2 ottobre 2005
Olimpiadi Giovanili - EYOF
Lignano Sabbiadoro
luglio 2005
 
 
Adriano e Cruz, Inter - Porto, Champions League 2005

L'attesa e l'attimo. La pazienza e lo scatto. L'immobilità e il movimento. L'istante e l'eternità. L'ossimoro è nella natura stessa della fotografia sportiva, fatta proprio di queste apparenti dissonanze. Una specialità che sta sopravvivendo alla lenta agonia del reportage, perchè forse più di ogni altra resta "fotografia", rappresentazione e emozione della realtà.
Eppure la fotografia sportiva, come il giornalismo sportivo, è considerata un po' figlia di un dio minore, rispetto ai servizi di guerra, di cronaca, di cultura, di moda. E' vista come l'applicazione giornalistica a un gioco, a un futile divertimento, per cui non servono competenze, cultura, sensibilità, coraggio.
Nulla di più sbagliato, nulla di più falso.
Lo sport è una potente metafora della vita, anzi, sempre più spesso c'è un rovesciamento di termini e la vita vive delle metafore sportive.
 
Italia - USA, Biella, 2004

Il giornalismo scritto ha vissuto, e sta vivendo, grandi pagine della sua storia imbevendosi di letteratura. Molti scrittori hanno superato una certa ripulsa snobistica e pauperistica per lo sport "poco impegnato", "oppio dei popoli", "occupazione volgare", "trionfo del corpo sulla mente" trovando alla fine nelle discipline sportive (e specialmente nelle più popolari come ciclismo, calcio e sci) non solo ispirazione e "storie", ma riscoprendo l'epos, il mito, la favola. Le fonti storiche della letteratura.
Il racconto scritto da Gianni Brera di una tappa del Tour de France diventa la poesia e la suggestione di un viaggio nella cultura accompagnato dalla fatica di storie umili; la finale della coppa Rimet tra Brasile e Uruguay con la penna di Osvaldo Soriano ha la tensione e la solennità di un romanzo tragico.
«Tutto ciò che so della vita l'ho imparato dal calcio», disse Albert Camus, che prima di diventare scrittore fu portiere della nazionale algerina.
Il giornalismo sportivo scritto, potendo contare su grandi firme, si è guadagnato una sua dignità, una credibilità che non è confinata nell'ambito sportivo.
Anche perchè la televisione ha sortito un effetto singolare. Con la sua prepotente e preponderante presenza, con la sua aggressività totalizzante, ha imposto lo sport come immagine vincente, come moda corrente e inesauribile, creando nuovi linguaggi, nuovi miti, nuovi sogni. Ha creato un mercato di fruitori la cui domanda non riesce a essere soddisfatta dallo schermo, aprendo nuovi spazi alla letteratura. E alla fotografia.
Già, perchè la fotografia sportiva sopravvive alle telecronache per la sua forza "primordiale". E' sintesi dell'attimo, del gesto. Coglie il momento della vittoria e della sconfitta. Inequivocabilmente.
Si è molto discusso e polemizzato sulla foto-icona del miliziano spagnolo colpito a morte e ritratto da Robert Capa. Qualcuno dice che è un falso, che è stata costruita, altri credono alla sua genuinità. Il dribbling di Maradona nella finale con l'Inghilterra, l'evoluzione agli anelli di Yuri Chechi alle Olimpiadi, gli sci di Gustav Thoeni che sfiorano il paletto della porta nello slalom di Saint Moritz o la smorfia di fatica di Pantani sull'Alp d'Ouez non sono falsificabili. Sono movimenti e momenti che non si possono costruire o ricostruire.
Sono frammenti di realtà, emozioni congelate. Con buona pace di chi poi voglia filosofeggiare sul rapporto realtà-rappresentazione.


 
Janica Kostelic, medaglia d'oro discesa libera, 2005

Però se il giornalismo sportivo scritto ha avuto i suoi riconoscimenti letterari, la sua considerazione culturale, questo non è ancora accaduto alla fotografia sportiva. Nessun Parapazzo ha ricevuto il bacio della principessa trasformandosi, come il rospo in principe, da "scattino" a "fotografo".
Una somma ingiustizia, perchè la fotografia sportiva è fatta di tecnica superiore, di sensibilità estrema, di grande cultura dell'immagine. Lo sport non permette pose e tentativi. Impone disciplina interiore, concentrazione, estro, arte.
Richiede sacrificio fisico e mentale. Occorre essere li dove l'avvenimento accade. Il giornalista può farsi raccontare il gol se non l'ha visto, può risolvere con un'intervista il dubbio su una fase di gioco. Il fotografo no. In un certo senso fa parte dell'evento.
Non è un caso che grandissimi fotografi, da Cartier Bresson a Scianna non abbiano resistito a inquadrare durante i loro reportage ragazzi che giocavano a calcio, che compivano gesti sportivi. Documentare la realtà, raccontare per immagini genti e paesi significa inevitabilmente incontrare lo sport e il suo immaginario.
Aldo Martinuzzi è uno di questi fotografi sportivi. Uno di questi cantori del gesto agonistico. Uno di questi poeti del mito.
Il mercato dell'editoria sportiva non consente grandi invenzioni stilistiche o ardite avanguardie concettuali. Richiede emozione e bellezza formale, semplicità. E per catturare tutto questo occorre conoscenza della materia, della tecnica e dei linguaggi, sensibilità culturale, disponibilità umana. E tanta passione.
Martinuzzi ha coltivato tutte queste qualità con la tenacia, l'arguzia e la costanza di un vero friulano qual è. Ha affinato la sua manualità sporcandosi con le emulsioni della fotoincisione, ha sviluppato la sua sensibilità tecnica incollandosi alle lenti contafili, ha fatto suo il linguaggio formale e la retorica dell'immagine studiando le centinaia di foto che gli passavano davanti agli occhi durante gli anni di lavoro alla "Fotoincisione Sempione" di Milano, a comporre i "rotocalchi" sportivi di successo degli anni '60 e '70. Una scuola di bottega, una scuola di vita. Perchè accanto alle immagini ci sono i racconti, le parole, le letture dei grandi giornalisti sportivi di allora, da Gianni Raif, direttore di "Super Sport", all'allora giovanissimo Giorgio Lago.
E' impossibile per lo spilimberghese Martinuzzi non rimanere affascinato da questo mondo, non venir catturato dalla passione per la fotografia sportiva. La trafila è quella solita dei tempi in cui il "mestiere" si imparava camminando con le proprie gambe, sporcandosi le mani, sbagliando, osservando. Praticando l'umiltà e avendo l'ambizione di riuscire. Un ossimoro, appunto.
L'attrezzatura fotografica degli anni '70 consente scatti che i fotografi degli anni '50 e '60 non sognavano nemmeno. Cogliere l'azione di un gol con la Rolleiflex biottica avendo in magazzino una pellicola pancromatica da 18 Din non è la stessa cosa che inquadrare l'azione attraverso il 300mm f:2,8 con un 400 Asa e con l'ausilio di un motore...
Martinuzzi si impossessa della tecnica dello scatto, della tecnica dell'istante, del prevedere l'azione, dell'immaginare le conseguenze di un gesto. Gli sport invernali sono una palestra severa: la neve pone problemi di luce che l'automatismo più raffinato da solo non riesce a risolvere del tutto, il freddo condiziona mente e fisico, la velocità dell'azione richiede nervi saldi e grande esperienza.
Le foto degli slalom e delle discese sono la perfetta sintesi di quest'arte. Occorre far parlare il corpo e i muscoli, è necessaria la ricerca plastica del movimento, perchè l'espressione della faccia dell'atleta è nascosta da caschi e occhialoni. Qui Martinuzzi si eleva a grande fotografo, a interprete dello sci alpino, e non ha nessuno skiman che gli prepari l'attrezzatura...
Ma l'occhio della velocità, la percezione della potenza che si libera nell'attimo da fermare, sono un bagaglio culturale da mettere a disposizione di tutte le discipline. Ecco Maradona colto nell'umanissima smorfia, la lingua fuori dalla bocca per aiutare a rendere perfetta la sua spaccata, con l'avversario che tenta la sforbiciata per toglier e il pallone. Un impianto plastico da grande scultura, una forza espressiva che va a comporre la leggenda e l'epica di un genio del calcio.
Lo stesso occhio coglie, in velocità, quasi come una riflesso condizionato, il pugno di Stefano Zoff che viene alzato dall'arbitro che lo decreta vincitore della corona europea. Il guantone destro che fascia il colpo vincente incontra un faro che diventa l'alone soprannaturale di Nike. E' un attimo, è una citazione, è un ricordo scolastico. E' una foto simbolo. Che racconta tutto passando da quel gesto di trionfo a un volto segnato dalla sofferenza per i colpi ricevuti.
 
Damiano Cunego Gilberto Simoni,
tappa Cles/Bormio, Giro d'Italia,2004
La fatica e la sofferenza sono fotogeniche: deformano il volto, stravolgono gli occhi, creano forti emozioni, evocano sensazioni nascoste. Martinuzzi ne è fotograficamente e umanamente attratto, le sue forti radici friulane hanno impresso nell'emulsione del suo Dna ombre e luci indelebili. Ecco le maratone, ecco il rugby, ecco il ciclismo, tutti restituiti alla loro dimensione e cultura della fatica e della sofferenza.
A raccontare in questo modo il lavoro di Aldo Martinuzzi qualcuno potrebbe avere la percezione del ritratto ideale, romantico, di un artista. Un'altra dimostrazione che le parole non "fotografano" la realtà, ma suggeriscono solo immagini.
La professionalità di Martinuzzi, il suo rigore formale e tecnico, spazzano questo gioco semantico e ci restituiscono un uomo che ha la passione del suo lavoro e la serietà del suo mestiere. E un grande amore per lo sport e la vita.
Umberto Sarcinelli
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